Alla ricerca di stabilità
Protesi e obsolescenze mediali
Nettar II
NOME FONDO | Collezione privata Fiammetta Rodella |
PROPRIETARIO | Renato Rodella |
IDENTIFICATIVO | 00000002 |
LOCALIZZAZIONE | Italia |
TIPOLOGIA DEL SITO | Abitazione privata |
SPECIFICHE | Appartamento, VI piano |
COORDINATE | 45.655803, 13.790643 |
DATA DI REPERIMENTO | 14/04/2020 |
AUTORE DELLO SCAVO | Rodella F. |
DEFINIZIONE | Fotocamera |
TIPOLOGIA | Analogica a soffietto 120mm |
CATEGORIA | Ottica |
ANNO | 1953 |
MARCA | Zeiss Ikon |
MODELLO | Signal Nettar 518/16 |
N. SERIE | J96365 |
MISURE E PESO | 13,5 cm (L), 5 cm con obiettivo chiuso, 10,5 con obiettivo aperto (P), 10,5 cm (H) / 546 gr |
Alla ricerca di stabilità. Protesi e obsolescenze mediali
di Fiammetta Rodella
La particolarità che appartiene ai cosiddetti “vecchi media” è la possibilità di essåere portatori di pratiche e nozioni socio-culturali che apparentemente possono sembrare incompatibili con il presente e con le usanze della società attuale, ma che tuttavia racchiudono la testimonianza della trasformazione della comunicazione mediale e della società stessa. Non rappresentano solamente un ponte di collegamento con il passato, ma forniscono gli elementi per indagare il presente, di cui sono i predecessori.
Attraverso la ricerca all’interno di quello che si potrebbe definire un archivio domestico, sono emersi due dispositivi molto diversi fra di loro, testimoni di due periodi storici differenti: una fotocamera analogica a soffietto, la Signal Nettar, prodotta durante i primi anni Cinquanta dalla società Zeiss Ikon, e una videocamera Sony Handycam collocabile tra la fine degli anni Novanta e la prima metà del primo decennio degli anni Duemila.
I vecchi media non solo sono le radici dell’albero genealogico della contemporaneità; se riscoperti possono incarnare i mezzi attraverso i quali è possibile far rivivere una temporalità ormai dimenticata, che tuttavia affascina. Per la creazione di questo archivio collettivo legato all’emergenza sanitaria che attualmente il mondo sta vivendo, la mia scelta si è orientata, quasi in modo automatico, verso la videocamera video Hi8 che apparteneva a mia madre. Questo perché il dispositivo in questione è stato una presenza ubiqua durante la mia infanzia. I ricordi legati a mia madre la vedono intenta a carpire e rendere immortale ogni istante appartenente alla vita di famiglia: i viaggi, le recite scolastiche, i giochi con gli amici, le feste di compleanno.
Come sosteneva McLuhan «nelle ere della meccanica, avevamo operato un'estensione del nostro corpo in senso spaziale. Oggi, dopo oltre un secolo di impiego tecnologico dell'elettricità, abbiamo esteso il nostro stesso sistema nervoso centrale in un abbraccio globale che, almeno per quanto concerne il nostro pianeta, abolisce tanto il tempo quanto lo spazio» (McLuhan, 1999) . Il carattere ibrido della videocamera, in parte meccanica, in parte elettronica, fa sì che nei miei ricordi, l’elemento meccanico si associ alla figura di mia madre, diventando parte di lei, fino a quasi essere un ampliamento della sua persona; inoltre i moltissimi eventi catturati su nastro, al momento della loro visione, annullano le distanze temporali e spaziali alle quali essi appartengono, trasportando colui che li visiona in periodi appartenenti al passato che oramai non esistono più, ma che l’opera di mia madre ha reso immortali. Inoltre essi sono le testimonianze del cambiamento tecnologico, sociale, comunicativo attraverso cui è possibile studiare e comprendere il presente. Quando la proprietaria dell’oggetto è venuta a mancare, anche lo strumento stesso ha cessato la sua vita, è stato riposto in un armadio, tuttavia non è stato dimenticato.
Durante la ricerca della videocamera, mi è capitato di scoprire un dispositivo di cui ignoravo l’esistenza: la fotocamera degli anni Cinquanta appartenente a mio nonno. Possiede il fascino dell’antico, del lontano dalla contemporaneità, di una tecnica fotografica ormai superata e raramente utilizzata per la sua complessità. Il progresso tecnologico ha il merito di aver semplificato alcuni processi, rendendoli più precisi e accessibili. Tuttavia, proprio il desiderio di riportare in vita un oggetto, questo sì dimenticato, ha fatto sì che lo scegliessi, con la promessa in futuro di mettersi in gioco e scattare delle fotografie che catturino l’attualità, tramite un dispositivo che non le appartiene. Questo medium, oltre che essere testimonianza di un mondo che, dopo il secondo conflitto mondiale, si avviava verso il boom economico e l’epoca del benessere, rappresenta un frammento di mio nonno e della sua personalità, dandomi l’opportunità di conoscere una parte di lui che non ho mai avuto l’opportunità di incontrare.
Il passaggio al digitale ha influenzato la comunicazione, permettendo la trasformazione dei “vecchi media” e la creazione di nuovi. I processi di digitalizzazione vengono associati alla nozione di successo, considerati cambiamenti vincenti. Tuttavia, trovandosi a confronto con questi due manufatti così distanti e diversi fra di loro, una domanda sorge spontanea: gli strumenti, i metodi di comunicazione, i dispositivi che attualmente rappresentano il progresso, saranno in futuro, ancora in grado di essere utilizzati?
Interessante è notare che l’apparente obsolescenza associata ai media più distanti dalla contemporaneità non sia in realtà tale: la vecchia fotocamera analogica risulta ancora utilizzabile, mentre i dubbi sorgono sul funzionamento della videocamera, il dispositivo più recente tra i due.
Ecco che quelle parti meccaniche che incarnano l’evoluzione, il successo e il progresso, si scoprono, in modo paradossale, maggiormente obsolete di quelle considerate tali. In una situazione di emergenza come quella odierna, in cui la comunicazione è fondamentale, si tendono a cercare delle stabilità, dei punti fissi, delle sicurezze incorruttibili. Non sempre essi sono rappresentati dai media digitali, ma magari da quei media che pur appartenendo al passato, sono incredibilmente attuali e permettono di indagare le temporalità che hanno forgiato l’odierno, sia a carattere universale che più personale e individuale.
Alla ricerca di stabilità. Protesi e obsolescenze mediali.
Materie e tecniche ritrovate
Paolo Cherchi Usai nel definire i film “orfani”, mette in evidenza come questi diventino tali nel momento in cui si riscontrino tre casi specifici: orfani di genitori, le case di produzioni non risultano più esistenti e gli autori non più in vita; i dimenticati, quando i genitori, divenuti troppo vecchi, ne rimuovono la presenza tra le loro memorie; gli sconosciuti, nel caso in cui sia i produttori, sia coloro che li hanno realizzati siano ignoti (Cfr. Cherchi Usai, 1999).
Al momento dello scavo all’interno del mio archivio domestico è emersa una macchina fotografica. Era stata riposta sul ripiano più alto di un mobile dello sgabuzzino di casa mia, sommersa dai numerosissimi oggetti e scatole che popolano quella stanza. Mio padre, su mia richiesta proprio perché troppo in alto per me, era intento a cercare alcuni accessori appartenenti a un differente dispositivo, quando questa gli è capitata fra le mani. Con occhi stupiti ha rivolto lo sguardo verso di me, sorprendendosi per ciò che avesse rinvenuto.
La definizione dei film “orfani” su cui precedentemente ci si è soffermati si potrebbe quindi estendere all’oggetto ritrovato: la macchina fotografica ha subito due dei tre casi di orfanilità descritti da Paolo Cherchi Usai; essa, infatti, aveva perduto il suo proprietario, il mio nonno paterno, ed era stata dimenticata dall’erede a cui era legittimamente passata, mio padre. Per ridarle una genitorialità, non bastava che decidessi di prendermene cura, bisognava indagare su di lei e sulla sua storia.
Sono gli stessi oggetti a parlare e a raccontare la loro esistenza, dai graffi, ai guasti, alle iscrizioni, tutto ciò che li compone caratterizza i loro trascorsi.
Ciò che si evince subito è che sia una macchina fotografica a soffietto, possiede sul lato frontale un piccolo sportello che permette l’apertura dell’obiettivo; proprio su di esso si presenta, in caratteri maiuscoli argentati, il nome del modello in questione: Nettar (foto 1 e 2). Subito a sinistra di questo marchio ne è presente un altro “Zeiss Ikon”(foto 3), sempre di colore argento. La fotocamera presenta una calotta superiore in metallo cromato argentato (foto 4), proprio in questo spazio è allocato il mirino di forma quadrata. Questo si colora di rosso nella metà sinistra quando la pellicola non è avanzata.
Sempre nella parte superiore si trovano a sinistra il pulsante per lo scatto, a destra quello con cui si apre l’obiettivo e una rotellina con una freccia che indica il senso di avvitamento per l’avanzamento della pellicola (foto 4). Sopra il mirino, invece, si può notare la presenza di una struttura che permette di aggiungere il flash alla fotocamera.
Sul retro del corpo macchina (foto 5) sono incise altre cinque scritte: sul fianco sinistro in verticale il modello (518/16) (foto 6), sul destro ancora in verticale il numero di serie (J 96365) (foto 7), in basso, leggermente in rilievo, il Paese di produzione (made in Germany) (foto 8) e al centro nuovamente la marca (Zeiss Ikon) e l’ubicazione della fabbrica in cui è stata costruita (Stuttgart) (foto 9). Queste ultime due diciture sono separate da una finestrella chiusa da una antina di protezione scorrevole in metallo argentato che, se aperta, permette di leggere il numero progressivo degli scatti (foto 10); al momento dell’impressione è consigliabile chiuderla per evitare infiltrazioni di luce.
Il materiale del corpo macchina è metallo lavorato di colore nero con una trama che imita la pelle. Invece, è costruito realmente in pelle, nera anch’essa, il soffietto dell’obiettivo. I bracci pieghevoli che permettono l’apertura del soffietto sono sempre in metallo.
Sul fianco destro è collocata una placca di metallo che se fatta scorrere consente l’apertura e la chiusura della macchina fotografica per poter inserire al suo interno la pellicola (foto 11, 12, 13, 14). La fotocamera è dotata di lenti Novar-Anastigmat 75 mm f 4.5, otturatore Pronto con tempi di scatto 1/25, 1/50, 1/100, 1/200 di secondo con in aggiunta la posa B, che consente l’uso di un tempo di esposizione personalizzato mediante specifiche impostazioni della macchina fotografica (foto 15, 16, 17). Il fuoco parte da una distanza di 120cm fino al fuoco infinito, che permette di ottenere nitida una vasta porzione del paesaggio, anche i soggetti molto distanti dall’operatore. L’obiettivo è piuttosto buio, l’apertura del diaframma parte da f/4.5 fino a un massimo di f/22; si devono quindi prediligere gli scatti alla luce del giorno, in mancanza di un’ illuminazione artificiale.
Il formato della pellicola utilizzabile è 120, mentre il formato del fotogramma è 6x6cm. L'avanzamento della pellicola stessa avviene manualmente tramite nottolino sulla calotta della macchina. Il caricamento dell'otturatore si effettua manualmente prima dello scatto con la levetta posta direttamente sopra all'ottica. Tre piedini rotondi in metallo sulla parte sottostante del corpo macchina le consentono di essere poggiata su una superficie e poter stare in equilibrio (foto 18, 19, 20, 21, 22). Purtroppo non è presente la custodia originale, probabilmente è andata perduta. Il dispositivo presenta un design molto compatto; con 135mm di lunghezza, 105mm di altezza, 50 mm di larghezza (con obiettivo aperto 105mm) e un peso di 546g è pratica e maneggevole, adatta ad essere portata ovunque.
Per mio padre la Nettar è quasi una compagna di vita. Da quando lui è nato racconta di ricordarsela sempre presente. Mio nonno amava portarla con sé durante i viaggi, per documentare i luoghi visitati, gli amici e i parenti ritrovati. Proprio di questi narrano le sue fotografie. Lo stesso catalogo Zeiss Ikon del 1955 la descrive come la fotocamera perfetta per i fine settimana e le vacanze, comoda perché praticamente tascabile e pieghevole, qualità che consente all’obiettivo di rimanere ben protetto (figura 1 e 2).
La fotocamera possedeva una storia, quella della mia famiglia, ma prima che entrasse nelle loro esistenze le sue origini erano ignote sia a me che a mio padre.
Alla ricerca di stabilità. Protesi e obsolescenze mediali.
Il medium orfano di una storia dimenticata
La prima operazione che si mette in atto nello studio di un materiale, di un artefatto ignoto è l’indagine di una temporalità, di una datazione. Ciò permette al ricercatore di assegnare al suo oggetto un’età, collocarlo in un determinato periodo di cui il manufatto riflette la cultura, il pensiero, i costumi, il gusto della società in cui è stato realizzato. L’identità stessa di un prodotto è contenuta in questo e nella sua temporalità. Il mio studio ha quindi avuto inizio dall’osservazione dell’oggetto in sé, da ciò che era ben visibile su di esso. “Nettar” e “Zeiss Ikon” sono le due iscrizioni assunte come punto di partenza per l’indagine, per attribuire al materiale un nome e una data di nascita, nel tentativo di costruire una sorta di biografia della macchina.
Nella mia limitata conoscenza in ambito fotografico, la marca Zeiss è sempre stata associata alla produzione di lenti od obiettivi, tuttavia, la mia ricerca mi ha permesso di ripercorrere la storia di questo gigante della produzione in campo ottico, scoprendone una vita molto più ricca e densa di quella immaginata.
Carl Zeiss, nel 1846 fondò a Jena, nella Turingia, una fabbrica per apparecchi ottici di precisione, iniziando l’attività con la produzione di microscopi e imponendo severi controlli di qualità sui prodotti stessi. A partire dal 1866 il nome Zeiss divenne conosciuto in tutti i circoli scientifici europei. Nel medesimo anno l’incontro fortunato con Ernst Abbe, professore di matematica presso l’Università di Jena, contribuì ulteriormente ad accrescere l’alta qualità dei prodotti Zeiss, caratteristica peculiare ancora oggi. La carta vincente di Ernst Abbe fu l’approccio scientifico allo studio dei materiali e dei progetti per gli schemi ottici che si basava sul calcolo matematico e sulla fisica, al contrario di ciò che accadeva fino a quel momento in cui prevaleva la progettazione su basi empiriche, su tentativi ed errori.
Dopo la morte di Carl Zeiss, Ernst Abbe, istituì la Fondazione Carl Zeiss (Carl Zeiss Stiftung) che puntò alla promozione della ricerca scientifica e alla tutela dei diritti del lavoratore. La Fondazione Carl Zeiss entrò nel mondo della fotografia nel 1890, mettendo in produzione obiettivi fotografici nei suoi stabilimenti di Jena.
Nel 1909 si formò un duopolio: da una parte la ICA (International Camera Aktiengesellschaft) che produceva fotocamere, dall’altra la Zeiss che realizzava gli obiettivi che le corredavano. Sorse però un problema. Il mercato cominciava a chiedere fotocamere più modeste ed economiche, come economiche dovevano essere le ottiche. La ICA, quindi si rivolse alla società concorrente Carl Paul Goerz di Berlino. Con il passare degli anni le fotocamere della Goerz si dimostrarono inadeguate alla concorrenza e nel 1926 la Fondazione Zeiss assorbì la Goerz. Proprio nel 1926, siccome la crisi crisi post bellica della Grande Guerra mandò in fallimento molte e importanti aziende tedesche, la Zeiss acquistò altre quattro società produttrici di fotocamere, obiettivi e otturatori: la Contessa-Nettel, la stessa ICA e la Ernemann, fondando nello stesso anno la Zeiss Ikon (dal greco “ikon”, “immagine”), con sede a Dresda. Numerosissimi ed eterogenei erano i prodotti della società che nel catalogo annoverava obiettivi, ingranditori, proiettori, esposimetri, pellicole, oltre alle moltissime fotocamere, per successivamente ampliarsi ulteriormente con la produzione di cineprese.
Dal 1933 il regime nazista si interessò alla Zeiss per la produzione di binocoli e macchine fotografiche per uso militare. Ciò determinò, durante la seconda guerra mondiale, numerosi attacchi aerei contro le fabbriche Zeiss: la sede della società subì danni notevoli durante il bombardamento di Dresda nel 1945.
Un particolare presente sul retro della fotocamera in mio possesso ha attirato la mia attenzione; si tratta di un’incisione in rilievo “Zeiss Ikon Stuttgart”. A seguito della sconfitta tedesca nella Seconda Guerra Mondiale e alla divisione della Germania, Dresda, la città sede della Zeiss Ikon e della Fondazione Zeiss, si trovava nella zona di influenza sovietica. Jena, la sede della Carl Zeiss, dove venivano prodotti gli obiettivi, si trovava ad ovest di Dresda, ma ancora nella zona sovietica. Dresda fu occupata subito dai sovietici, mentre Jena lo fu dagli statunitensi, che solo dopo tre mesi la consegnarono alle truppe di Stalin. Gli Americani decisero quindi di spostare rapidamente quanti più materiali, strumenti e scienziati possibili nella Germania Ovest; questo perché era ancora in corso la guerra con il Giappone e quindi occorreva rinforzare l’industria militare, ma forse anche perché gli statunitensi puntavano a sottrarre cervelli al futuro nemico, l’Unione Sovietica.
La Zeiss iniziò quindi una sorta di duplice vita: ad est, l'Unione Sovietica iniziò a trasferire a Kiev i macchinari per la produzione di fotocamere, ed a Krasnogorsk, vicino Mosca, quelli per la produzione di obiettivi; ad ovest venne rimessa in piedi grazie ai cervelli trafugati da Jena ed ai massicci investimenti statunitensi. Ufficialmente, la Fondazione Zeiss rinacque il 23 febbraio del 1949 a Oberkochen, vicino Stoccarda, ma come sede di produzione era già attiva, proprio a Stoccarda (Stuttgart, appunto), la vecchia fabbrica della Contessa-Nettel, scampata ai bombardamenti aerei. A Stoccarda riprese la produzione, interrotta, delle fotocamere Ikonta e Nettar, anche se la produzione si appoggiava alla Zeiss di Jena per la fornitura di obiettivi.
Mi è stato quindi possibile assegnare alla macchina fotografica di mio nonno una temporalità.
Le prime Nettar iniziarono ad essere prodotte già nel 1934 come alternativa economica ai modelli Ikonta. Difatti erano tra i più economici dei prodotti Zeiss Ikon, non perché fossero di scarsa qualità, ma perché erano corredati da obiettivi e otturatori meno costosi. Stando alle fonti trovate, la società produsse, tra il 1934 e il 1959, dodici modelli Nettar, otto dei quali possiedono l’apertura verticale dell’obiettivo, mentre quattro quella orizzontale. Il mio dispositivo appartiene alla seconda categoria. Era molto difficile che mio nonno, nato nel 1920, avesse acquistato una macchina fotografica in un periodo antecedente alla Seconda Guerra Mondiale. La mia ricerca si è quindi orientata ai modelli prodotti nel dopoguerra. Essendo così vasta la collezione Nettar, chiaramente non mi era sufficiente la sola indicazione del nome presente sulla fotocamera per poterla collocare temporalmente. Indagando e osservandola con maggiore attenzione, su uno dei due lati ho potuto notare una incisione che riporta il numero del modello: 518/16. La digitazione in rete di tale numero e l’indicazione spaziale analizzata in precedenza (Zeiss Ikon Stuttgart) ha permesso di restringere il campo di ricerca a un lasso temporale di una decina di anni, dal 1949 al 1959. A questo punto lo studio è risultato più complesso del previsto. Gli esiti hanno evidenziato l’esistenza di innumerevoli versioni dello stesso modello 518/16, che differivano fra di loro per tipi di otturatori, diaframmi, oppure minimi particolari come la forma della parte superiore che ospita il mirino. Tramite consultazioni su diversi siti, che offrivano date incerte e non coincidenti, e su di un catalogo parziale della stessa Zeiss Ikon, le informazioni raccolte non mi soddisfacevano e non erano sufficienti. Ho continuato nello scavo tra le fonti sitografiche fino a che non ho trovato quello che cercavo: una tabella esplicativa che raccoglieva le variazioni fra i modelli e li datava. Sono quindi riuscita a dare, finalmente, un nome alla mia fotocamera, un nome che la potesse identificare definitivamente: Signal Nettar.
Come già accennato la vecchia fabbrica della Contessa-Nettel a Stoccarda nel 1949, dopo l’interruzione a causa della guerra, riprese la produzione delle fotocamere Nettar, con formati di pellicola 6x6 cm e 6x9 cm (figura 3), dispositivi che tuttavia possedevano ancora un design pre-bellico e superato. Nel 1951 si decise di modernizzarlo e venne rilasciata la Nettar II che possedeva un mirino ottico alloggiato sulla parte superiore del corpo della macchina, uno strato cromato con angoli di forma tondeggiante, mentre i modelli successivi presentavano angoli quadrati. Nella nomenclatura della Zeiss Ikon il formato 6x6cm era identificato con la lettera B, mentre il 6x9cm con la C; ecco perché è possibile trovare anche nomi come “Nettar II B” e “Nettar II C”. Due anni dopo, nel 1953, venne introdotta un’ulteriore innovazione su un modello identico alla Nettar II: un meccanismo per prevenire la doppia esposizione. Questo errore avveniva nel momento in cui l’operatore scattava due foto di seguito senza far avanzare la pellicola. Di conseguenza due momenti venivano impressionati uno sopra l’altro, compromettendo lo scatto. Nel modello di nuova produzione la metà sinistra del mirino diventava rossa per indicare che la pellicola non era stata fatta avanzare, rappresentando quindi un segnale per il fotografo; proprio da questo deriva il nome “Signal Nettar”. Il meccanismo in questione però risultò piuttosto costoso e nello stesso anno venne sostituito con un punto rosso situato sulla parte superiore della macchina fotografica affianco al pulsante dello scatto. Entrambe le versioni però sono note con il nome “Signal Nettar”. Le Signal Nettar vennero prodotte tra il 1953 e il 1959, ma i modelli con il meccanismo sul mirino per impedire la doppia esposizione sembra fossero rilasciati solamente durante il 1953. Al termine delle lunghe ricerche mi è stato possibile riassegnare alla fotocamera di mio nonno la sua identità perduta: si tratta di una Signal Nettar prodotta dalla fabbrica affiliata della Zeiss Ikon nel 1953, a Stoccarda in Germania.
Durante gli anni Cinquanta la collaborazione fra le due società gemelle, Zeiss Ikon di Jena e Contessa-Nettel di Stoccarda venne a cadere: la guerra fredda portò al boicottaggio in Occidente dei prodotti venuti dall’Oriente e la Zeiss di Stoccarda cominciò ad essere autonoma nella produzione di obiettivi. Sempre in quegli anni le fotocamere prodotte nella Germania Est non vennero più contrassegnate con il marchio Zeiss Ikon, ma con il nome Pentacon.
La Zeiss di Stoccarda decise di razionalizzare la produzione di fotocamere, limitandosi a quelle per pellicola 120 ristrette ai tre formati 6x4.5 cm, 6x6 cm e 6x9 cm. Con la fine poi degli anni Cinquanta la fabbrica di Stoccarda decise di tagliare il settore del medio formato e di concentrarsi sulle fotocamere per 35 mm. Questa decisione si rivelò una politica commerciale del tutto errata: venne creato il sistema Contarex, di alta qualità, mentre allo stesso tempo si realizzarono e lanciarono sul mercato numerose fotocamere molto semplici con un livello qualitativo medio-basso che crearono sovrapposizioni commerciali e confusione nella clientela. Inoltre a partire dagli anni Sessanta il mercato della fotografia iniziò a cambiare con l’avvento dei produttori giapponesi che offrivano dispositivi sempre più competitivi ed a costi nettamente inferiori; persino le fotocamere più economiche della Zeiss Ikon non reggevano il paragone con i prezzi delle Nikon, Minolta e Pentax. Il difetto, se così si può chiamare, dei prodotti Zeiss fu la caratteristica di essere potenzialmente eterni, perché progettati con costi notevoli, altissima qualità, materiali robusti e affidabili, requisiti che nell’epoca del consumismo nascente non corrispondevano più ai bisogni del mercato, attratto dalle incessanti innovazioni tecnologiche e dal continuo ricambio di modelli offerti dal Giappone.
La Zeiss Ikon perseguì questa politica di qualità senza compromessi e ad ogni costo, politica che alla lunga si ripercosse sui numeri di vendita, dando luogo a ingenti perdite. Nel 1972 il settore fotocamere venne chiuso e ad operare rimase solo la Fondazione Carl Zeiss che con sede ad Oberkochen, in Germania, continua oggi a produrre obiettivi fotografici, cinematografici, binocoli, microscopi, lenti a contatto, oltre che essere attiva nella ricerca e nella realizzazione di articoli per i settori della medicina, della chirurgia, della fotogrammetria e delle misurazioni industriali.
Non solo il medium in mio possesso risultava orfano di un proprietario e di un’identità, ma la stessa storia di chi l’aveva creato, assemblato e venduto era dimenticata. L’infinità di manufatti fabbricati dalla Zeiss nel settore fotocamere non ha impedito che l’oscurità calasse su ottant’anni di vita di uno dei colossi nel campo dell’ottica; ciò per cui oggi la Zeiss è ricordata riguarda esclusivamente il campo limitato degli obiettivi di altissima qualità e costo.
Il piccolo tesoro antico rinvenuto all’interno delle mura domestiche rappresenta un tassello di varie storie che tra di loro si intrecciano: la storia della Zeiss Ikon, la storia della Germania nel secondo dopoguerra, la storia della mia famiglia. Il suo ritrovamento ha permesso che su ognuna di essere fosse portata la luce a illuminare qualcosa di nuovo: una scoperta, un avvenimento, un particolare, una consapevolezza, con la speranza che rimanga in eterno proprio come la Zeiss avrebbe voluto.
Alla ricerca di stabilità. Protesi e obsolescenze mediali.
Lunga vita all'analogico. La fine di una morte apparente
«Un giorno o l’altro anche noi scompariremo insieme alle nostre visioni, e di quel che abbiamo visto – del modo in cui lo abbiamo visto – non rimarrà assolutamente nulla. La smetta di illudersi».
Così replicava all'autore l'"editore" immaginato da Paolo Cherchi Usai (1999) nella speranza, o forse sogno, di poter un giorno scoprire il metodo finale per permettere la conservazione eterna delle pellicole, salvando così dalla distruzione l’immenso patrimonio cinematografico esistente. Appare davvero un’utopia quella di Cherchi Usai: la vita media delle pellicole in nitrato, in condizioni ideali di conservazione, è stimata in circa un secolo(Cfr. Dagna, 2014, p. 11)e i supporti cosiddetti safety, il triacetato e il poliestere, introdotti rispettivamente a partire dagli anni Cinquanta e poi dagli anni Ottanta, sono destinati in ogni caso a decadere. Anche se si continuassero a produrre ristampe dei film su nuove pellicole, tra alcuni anni i dispositivi per la riproduzioni di tali materiali verranno sostituiti da sistemi di proiezione digitali e non saranno più richiesti. Proiettare un film in pellicola diverrà sempre più costoso e l’esperienza del cinema si baserà su «poche rappresentazioni, molto glamour» (Cherchi Usai, 1999, p. 85). Le copie in pellicola rimarranno appannaggio delle cineteche, copie riservate unicamente alla conservazione. Il cinema, per come è nato, smetterà di esistere.
Sarebbe illusorio convincersi che le nuove tecnologie, possano interrompere tale corruzione. Il mito del digitale è pericoloso e ingannevole. Difatti si potrebbe pensare che la sua introduzione abbia rappresentato la svolta per l’ambito della conservazione, mentre così non è. I dati digitali trasmettono l’idea e la sensazione che le informazioni che essi racchiudono siano immateriali, tuttavia queste vanno conservate su supporti che materiali lo sono eccome; gli hard disk in cui vengono immagazzinati, sono dispositivi fragili, soggetti a guasti e decadimento esattamente come le stesse pellicole. Come sostiene Stella Dagna, «nel cinema la relazione con la materia si complica, ma non si nega mai. Si parli di un apparecchio di ricezione delle onde satellitari, di un computer o di un server, si tratta sempre di “cose” indispensabili alla fruizione cinematografica; oggetti che hanno una vita, una decadenza e una scomparsa dalla loro rapida obsolescenza» (Dagna, 2014, p. 37) .
Si stima che per evitare, o meglio limitare, la perdita di dati essi debbano venire copiati all’interno di un altro supporto ogni cinque anni, ma che comunque una volta perso il loro valore commerciale in cinque o dieci anni queste informazioni saranno perdute per sempre (Cfr. Mazzanti, 2011, p. 30) non solo perché, inevitabilmente bisognerà fare una scelta su cosa salvare, ma anche perché lo sviluppo e la trasformazione della tecnologia è rapidissimo. La legge di Moore, un concetto formulato negli anni Settanta, afferma che la complessità dei microcircuiti (per es., misurata dal numero di transistor per chip o per area unitaria) raddoppia periodicamente, con un periodo originalmente previsto in 12 mesi, allungato a 2 anni verso la fine degli anni Settanta e dall’inizio degli anni Ottanta assestatosi sui 18 mesi(Cfr. Treccani, 2008). Di conseguenza in meno di due anni la velocità di elaborazione, e di conseguenza anche le prestazioni di una tecnologia raddoppiano.
Questa evoluzione dal ritmo esponenziale è ormai evidente in svariati campi. Basti solo pensare a quei dispositivi pensati per la riproduzione: la breve stagione dei laserdisc, quella da poco terminata delle cassette VHS, il futuro declino dei DVD, di cui si respira già il tramonto, sostituiti dalle piattaforme di streaming.
Si pone quindi il problema di una futura visione di quei dati immagazzinati in un possibile hard disk risalente a venti anni prima: non è detto infatti che le future tecnologie saranno compatibili con quelle attuali, e di conseguenza che si sarà in grado di aprire i file conservati negli anni precedenti. È paradossale che le innovazioni tecnologiche pensate per migliorare la qualità della vita, semplificare attività e processi creativi risultino, in pochi anni, maggiormente obsolete di quelle tecnologie che dovrebbero essere tali.
Durante lo scavo mi sono resa conto che il mio primo dubbio, nel ritrovamento di una videocamera video 8 Sony Handycam e una fotocamera analogica, fosse l’obsolescenza della prima e il suo possibile non funzionamento, mentre ero sicura che la seconda potesse essere ancora utilizzata e conservasse le qualità che possedeva inalterate dagli anni Cinquanta. Inoltre la seconda questione che si poneva riguardava l’utilizzo: la videocamera era grande, pesante, complessa nel suo funzionamento, se non ci si limita alle sue funzioni base, e poco intuitiva, appunto proprio per le numerose opzioni di ripresa disponibili. La macchina fotografica, al contrario, una volta superato lo scoglio nell’impostazione del diaframma, dei tempi di scatto e della messa a fuoco, competenze che si affinano con l’esperienza, ma di cui l’uomo moderno è sprovvisto proprio perché abituato a una tecnologia che si regola da sola, era perfettamente funzionante in maniera molto chiara e semplice. «Le ragioni della sopravvivenza di quest’invenzioni dell’Ottocento sono facili da intuire. […] I programmi di computer diventano geroglifici nel giro di pochi anni, ma saremo sempre in grado di costruire un proiettore e uno schermo. Ci vuole solo una lente, un otturatore, una fonte di luce e una superficie su cui diffonderla»(Cherchi Usai, 1999, p. 82).
Ecco che, quindi, i media archeologici, non hanno esaurito il loro tempo, ma al contrario fino a che le pellicole fotografiche, cinematografiche e tutti i supporti necessari al loro funzionamento saranno prodotti, essi potranno vivere. Continueranno a essere in produzione perché esisteranno sempre degli amatori, appassionati e non attratti, dal fascino del “vintage”. Probabilmente le pellicole fotografiche e il successivo sviluppo degli scatti raggiungeranno costi notevoli, ma la bellezza di una grana antica, la possibilità di comunicare con il passato e una qualità viva dell’immagine vinceranno sulla morte. La moda del “vintage” salverà l’analogico.
È stata proprio l’opportunità di dialogare con l’antico a muovere la mia curiosità. Desideravo restituire alla fotocamera le avventure della sua vita, proprio per resuscitarla da quella morte apparente in cui giaceva da anni. Per fare ciò avrei dovuto cercare le immagini che lei aveva scattato, i momenti che aveva catturato e sottratto allo scorrere del tempo, come se fossero sospesi. Tra i vecchi album di famiglia conservati da mio padre uno di essi mi ha incuriosito particolarmente. Raccoglieva le fotografie scattate, proprio con quella macchina fotografica, da mio nonno durante i viaggi con la famiglia, in Italia e all’estero: da Roma, Torino, Venezia, alla Croazia…
Tre fotografie, appartenenti a tre anni consecutivi, restituiscono il ritratto della famiglia di mio padre. Una gita a Lignano nell’ottobre del 1968 (foto 23) mi fa sorridere: mio padre e mio nonno in posa sul molo indossano uno una polo a maniche corte, l’altro un dolcevita a maniche lunghe e collo alto. Faceva caldo? Faceva freddo? Io protendo per la prima: ho sempre sentito mio padre lamentarsi del freddo, anche in estate.
La seconda fotografia è stata scatta a Parenzo, nel settembre del 1969 (foto 24). Mio nonno e mia madre osservano qualcosa al di fuori dell’inquadratura, mio padre è l’unico a interessarsi a chi sta scattando la foto, forse un parente, forse un passante. Ritrovo all’interno dell’immagine mio padre di adesso in una duplice entità: quello di oggi si riflette nella posa, nella statura e nell’età di mio nonno, e nel mio padre di allora di cui conserva lo sguardo e quel mezzo sorriso.
Lo scatto del 1970 (foto 25) è quello che preferisco forse perché è molto spontaneo, quasi involontario. Anche se le fotografie sono fisse e intrappolano l’azione congelandola, l’immagine trasmette il movimento di mio padre che probabilmente in quell’istante stava parlando, forse ridendo a qualcosa detto da mio nonno. Il suo sorriso non è cambiato e la fortissima somiglianza di mio padre sedicenne con mia sorella attualmente venticinquenne mi impressiona.
Sfogliando l’album fotografico mi sono chiesta se oltre che rinvenire il punto di vista della fotocamera potessi cogliere la fotocamera stessa, una testimonianza della sua esistenza che non fosse limitata al suo sguardo. L’ho trovata.
Uno scatto del 1961 (foto 26) ritrae mia nonna, mio nonno e mio padre a Superga. Ciò che mi colpisce, il punctum barthesiano (Cfr. Barthes, 2003), è la custodia vuota e aperta della Signal Nettar, che mio nonno porta a tracolla. Mentre la macchina fotografica si trovava nelle mani di un operatore sconosciuto a compiere il suo scopo, viveva allo stesso tempo in quello scatto assieme alla mia famiglia. Il dispositivo ottico si scinde in una sorta di duplice esistenza diventando sia l’osservatore che l’oggetto guardato.
Sono andata alla ricerca di altre esistenze simili e ne ho rinvenute due, entrambe scattate nel 1958. La prima (foto 27) vede ritratti a San Giusto a Trieste mio padre e sua cugina (in basso), il padre di sua cugina (il primo a sinistra), il suo gemello (al centro), mio nonno (a destra). Sempre a tracolla è nuovamente presente la custodia, però meno riconoscibile poiché è visibile con chiarezza solo la cinghia, mentre l’alloggiamento per la fotocamera è nascosto dal braccio di mio nonno.
La seconda istantanea (foto 28) ha come protagonisti presso Marano Lagunare, mio padre, in basso, con una fondina da cowboy che portava sempre con sé che testimonia la passione, attualmente esistente per l’universo del Vecchio West, mio nonno a sinistra con l’immancabile tracolla sulla spalla e un altro uomo a destra. Ho scoperto in seguito, dai racconti di mio padre che si erano recati a fare visita a un ex compagno d’armi di mio nonno. Entrambi avevano combattuto nella Seconda Guerra Mondiale, fatti prigionieri in Libia dagli Americani nel 1943 e rimasti in prigionia ad Honolulu fino al 1946.
Tuttavia mi chiedevo se fosse possibile esistesse una fotografia che rappresentasse la prima apparizione della macchina fotografica, che indicasse, quindi, l’anno del suo acquisto.
È presente uno scatto del 1953 a Venezia (foto 29), probabilmente realizzato da mia nonna, che ritrae mio nonno in Piazza San Marco. Con la mano sinistra stringe una tracolla, che assomiglia molto a quelle viste in precedenza, tuttavia non è possibile vedere la custodia poiché questa è nascosta da una giacca. La Signal Nettar uscì sul mercato nel 1953, di conseguenza anche se non ve n’è la certezza, l’istantanea potrebbe essere proprio una delle prime fotografie scattate con il nuovo dispositivo. Una delle prime volte in cui la macchina fotografica iniziava a vivere, a immortalare la sua storia e quella della mia famiglia.
Mancato il suo proprietario nel 1993, la Signal Nettar venne dimenticata, sostituita da nuove macchine fotografiche sul mercato, superata e cancellata anche lei dalle innovazioni tecnologiche in rapido sviluppo e dal consumismo. Riposta sulla scansia più alta dello sgabuzzino è sopravvissuta in silenzio per ventisette anni. Era arrivato il momento di ridarle la voce.
Vittima forse anche io del “ritorno dell’aura” (Cfr. Dagna, 2014, p. 26)ho acquistato una pellicola a colori e ho scattato dodici foto.
Desideravo che la fotocamera di mio nonno, come una volta aveva sottratto allo scorrere del tempo l’infanzia e l’adolescenza di mio padre e aveva immortalato il passato (ciò che è stato) (Cfr. Barthes, 2003, p. 86) allo stesso modo oggi potesse immortalare il cambiamento (ciò che non è più)(Ibid.) e ciò che non ci sarà in futuro.
Il paesaggio della città cambia, si modifica, accoglie il progresso, le nuove tecnologie, il digitale; il fluire del tempo lascia il segno sul volto di mio padre che ho voluto fosse il soggetto di connessione tra passato e presente. Un presente instabile, incerto, che fa timore. Impressionare la realtà imposta dall’emergenza sanitaria significa raccontare una situazione anormale, insolita, creare un’evidenza di un presente, ci si augura, differente da quello che sarà il presente di chi, in futuro, sarà lo spettatore di queste immagini.
Mio padre, il filo conduttore del dialogo tra ciò che è stato e ciò che è, appare protagonista in una città che è tornata alla vita e che ritorna ad osservare forse con occhi nuovi (foto 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36).
Ho voluto accostare alla figura di mio padre quella della sua passione per la fotografia, poiché essa è parte di lui e lo identifica, forse anche eredità della stessa passione appartenuta a mio nonno (foto 37, 38). Ho cercato poi di riprodurre quello scatto del 1970, probabilmente con scarsi risultati. Tuttavia ciò che è rimasto nonostante siano passati cinquant’anni, e che desideravo conservare ancora è il sorriso di mio padre, spontaneo e autentico (foto 39).
Mancava, però, una presenza: quella di mio nonno. Una sola cosa era in grado in qualche modo di rappresentarlo: la Signal Nettar. Ho impugnato la Canon analogica degli anni Novanta di mio padre e ho scattato una foto. Con una sorta di metafotografia ho impressionato tre temporalità differenti: il passato ossia la fotocamera di mio nonno che si è sostituita a lui; il presente, mio padre; il futuro, me stessa, autrice dello scatto (foto 40).
La Signal Nettar è tornata in vita, e con lei anche mio nonno e il suo ricordo. Una tecnologia degli anni Cinquanta si è rivelata molto più longeva di quelle offerte dalle innovazioni attuali. Se ci dovesse essere, in futuro, un dopobomba saranno i vecchi media e le vecchie materialità ad uscirne indenni, e a seppellirci.
Non so cosa accadrà in futuro a queste foto, forse sbiadiranno, lentamente si cancelleranno e i volti impressionati diventeranno sconosciuti agli occhi degli spettatori del domani, come un’incognita sarà la realtà rappresentata su di esse. Oppure rimarranno testimonianze di un periodo lontano, passato, riesumate in futuro come se fossero una capsula del tempo. Nessuno lo sa, però, ogni tanto, come Paolo Cherchi Usai, è bello illudersi.
Bibliografia
BARTHES R. (2003), La camera chiara. Nota sulla fotografia, Piccola Biblioteca Einaudi, Milano
CHERCHI USAI P., (1999), L'ultimo spettatore. Sulla distruzione del cinema, Il Castoro, Milano
ID. (1999), What is an Orphan Film? Definition, Rationale and Controversy, dal Symposium Orphans of the storm: saving “orphan films” in the digital age, University of South Carolina http://www.sc.edu/filmsymposium/archive/orphans2001/usai.html (ultima consultazione novembre 2020)
DAGNA S. (2014), Perché restaurare i film?, ETS, Pisa
MCLUHAN, M., (1999), Gli strumenti del comunicare [1967], Il Saggiatore, Milano
Sitografia
https://sites.google.com/site/fromthefocalplanetoinfinity/nettar (ultima consultazione novembre 2020)
https://www.nadir.it/ob-fot/CONTAX_STORIA/contax_storia03.htm (ultima consultazione novembre 2020)
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http://www.fontefotografica.it/epoca2.asp?ID=2315 (ultima consultazione novembre 2020)
https://www.zeiss.com/corporate/int/about-zeiss/history.html (ultima consultazione novembre 2020)
https://www.catawiki.it/l/32277897-zeiss-ikon-nettar-518-16-6x6-cm (ultima consultazione novembre 2020)
https://camerapedia.fandom.com/wiki/Zeiss_Ikon_Nettar (ultima consultazione novembre 2020)
http://holoceen.nl/ZeissIkonBRD.php (ultima consultazione novembre 2020)