American Red Cross work on mutilès at Paris, 1918
Rebuilding an identity through a mask
Maschere
American Red Cross Work on Mutilès at Paris (1918) è un beve filmato realizzato dalla Croce Rossa Americana con il fine di pubblicizzare il lavoro svolto da Anna Coleman Ladd in Francia durante la Grande guerra. Il suo contributo, la realizzazione di maschere per le “Broken faces”, rientrava nel piano di riabilitazione per i veterani di guerra sostenuto dall’organizzazione internazionale, volto innanzitutto a restituire ai gueules cassées un’”integrità fisica” che permettesse loro di riconnettersi con la famiglia e reintegrarsi nella società.
L’approfondimento delle dinamiche socio-culturali che hanno portato la scultrice americana a mettere al servizio della medicina le sue capacità ci permette di leggere sotto un’altra prospettiva alcuni fenomeni che si stanno verificando durante la pandemia di COVID-19, la quale ha riscritto le norme di interazione sociale, in particolare mediante le mascherine di protezione. A tal proposito, il lavoro di Danielle Baskin, product designer americana, la quale ha concepito delle face masks in grado di riprodurre (con una grafica 3D) la zona del volto coperta dalla mascherina, risulta incredibilmente profondo se fatto dialogare con l’impresa della Ladd. Una conversazione tra due donne, resa possibile da un approccio analitico costruito sulla base dell’anacronismo delle immagini e della potenzialità della memoria storica.
American Red Cross work on mutilès at Paris, 1918. Rebuilding an identity through a mask
di Rachele Venuto
Nella ragnatela di misure previste dal Dpcm 26 aprile 2020, l’obbligo di utilizzo della mascherina, al fine di proteggere le vie respiratorie (art. 1, a), è quello i cui effetti hanno fisicamente (e metaforicamente) dato una “nuova faccia” alla popolazione italiana. Questa pezza di stoffa è diventata una concreta appendice della persona, lo status symbol della quarantena: non solo viene suggerita come mezzo di protezione dal contagio, ma è divenuta condizione preliminare e norma prescrittiva dell’interazione sociale.
Nei giorni successivi alla pubblicazione del testo decretante le misure per il contenimento del contagio, articoli speculanti l’adeguatezza (o meno) di tali decisioni governative hanno invaso il web; la mia attenzione, però, è ricaduta su un suggerimento di lettura che, apparentemente, si distanziava dal fil rouge della comunicazione informativa dominante: American Red Cross work on a mutilès at Paris, 1918. Il link condiviso dall’articolo ha aperto una finestra sulla piattaforma Youtube, riproducendo nel breve filmato il lavoro di una giovane scultrice americana, Anna Coleman Ladd, al servizio dei soldati reduci dalla “Grande guerra”: l’artista realizzava delle maschere di rame che potessero nascondere, per quanto possibile, le mutilazioni da essi subiti a causa delle “nuove armi”, restituendo loro un aspetto “normale” o, quantomeno, riconoscibile.
L’analogia con le mascherine da noi utilizzate durante questa emergenza sanitaria, innanzitutto fonetica (ad esempio, il termine anglosassone, mask, per definire entrambi gli oggetti è il medesimo) è evidente. Ciò che più mi ha sorpreso, però, è stato individuare in questi fotogrammi storici (seppur temporalmente e concettualmente lontani dalla pandemia odierna) una forte connessione con la contemporaneità che si muove su diversi livelli interpretativi: linguistico, sociologico, estetico, storico-culturale (...): l’idea della maschera come anestetizzante di una paura tacita, come interfaccia dei rapporti sociali, come compensazione di una privazione individuale (da un lato fisica e dall’altro ideologica), il tutto inquadrato in una politica del “dopo” (dopo una catastrofe bellica o sanitaria).
È a partire da queste analogie, le quali sottolineano l’evidente dialettica tra le due “images” storiche, che nasce la necessità e la proposta di preservazione, selezione, studio e riproposta di tale filmato storico: un frammento di una collezione ben più ampia di testimonianze “sociali” del dopoguerra (andate probabilmente distrutte in un incendio), risultanti del lavoro documentaristico dell’“American Red Cross” durante il primo conflitto bellico mondiale.
American Red Cross work on mutilès at Paris, 1918. Rebuilding an identity through a mask
American Red Cross Work on Mutilès at Paris (1918), titolo tutt’oggi non verificato e presumibilmente esito di una esigenza archivistica, è un breve filmato promozionale realizzato, con molta probabilità, dalla Red Cross Bureau of Picture, un’unità interna all’organizzazione umanitaria americana, fondata nel 1917, con lo scopo di affiancare la missione pubblicitaria (fa parte del “Bureau of General Publicity) e di foundraising sostenuta dallo stesso governo.
Oggetto
La prima inquadratura del filmato è una fotografia di Rue Notre-Dame-Des-Champs nel quartiere latino parigino, dove era situato lo Studio di Anna Coleman Ladd. La prima figura ad entrare in scena è, con molta probabilità, un’operatrice sanitaria della Croce Rossa Americana (riconoscibile dall’uniforme che indossa); non è possibile, però, specificarne l’identità (potrebbe anche essere la stessa scultrice), non solo a causa della pessima qualità video, ma anche a causa di una mascherina bianca che indossa (fatto tutt’altro che straordinario, dal momento che nel 1918 scoppia la “grande influenza” – “The Spanish flu”- Fig.2).
Successivamente vediamo la Ladd, assieme ai suoi assistenti (Jane Poupelet, Robert Vlerik, Mary Louise Brent e una donna di nome Blair), ritoccare delle protesi (direttamente indossate dai soldati); sullo sfondo è possibile distinguere la bandiera americana e quella francese, nonché una “libreria” di stampi in gesso dei volti mutilati dei clienti, punto di partenza per la costruzione della protesi metallica. Un soldato con un mento finto, si accende una sigaretta, mostrando così la versatilità e la “comodità” di tale oggetto.
Vengono mostrate, sommariamente, tutte le fasi di lavorazione della “tin mask”, in particolare quella di ricostruzione della parte mancante, che vede coinvolta, nel filmato, direttamente la Ladd, e di “ritocco cromatico”. Le riprese puntano a valorizzare il lavoro di squadra e, allo stesso tempo, la bravura degli operatori.
The process of creating a portrait mask began with a plaster cast of the mutilated face. On this cast was modelled the missing portion-nose, jaw, cheek, eye, forehead, ear-if possible guided by photographs taken before the mutilation. From the plaster model, a thin copper mask was made by electroplate and lined with silver. It was adjusted very carefully to fit the disfigured face, then painted with a hard enamel paint (originally, oil paint had been used, but it was found to chip off easily). The man could smoke through the half-opened modelled lips and tug at the mustache of real hair that had been securely fastened to the mask.
The mask could be held in place in a number of ingenious ways. (…) At first the mask covered the entire face, but these were found to be too hot and heavy to wear and so were reduced greatly in size and thickness. (Gavin, 1997, p. 19)
Reperto
Con l’entrata in guerra degli Stati Uniti, il presidente Wilson, chairman del consiglio di amministrazione della Croce Rossa, incoraggia i cittadini americani a contribuire (soprattutto economicamente) al lavoro di sostegno e aiuto medico gestito dall’organizzazione, ormai divenuta internazionale. A tal proposito nomina Davison amministratore del Consiglio di guerra, delegandogli il compito di gestire le operazioni della Croce Rossa; per sopperire alla mancanza di fondi, viene affiancato da un esperto di relazioni pubbliche, Ivy Lee, il quale crea un dipartimento volto esclusivamente alla raccolta di donazioni: per tale necessità, viene fondato un Dipartimento responsabile della realizzazione di filmati promozionali (documentanti il lavoro ex patria della Croce Rossa Americana), destinati ad educare e sensibilizzare un pubblico sempre più coinvolto. Ad esempio, il filmato in questione ebbe una notevole diffusione, raggiungendo anche aree remote degli Stati Uniti e contribuendo, oltretutto, all’accettazione della pratica della chirurgia estetica, in patria così come in Francia.
L’ufficio ha realizzato, prima della sua chiusura nel 1921, più di cento film, pochi dei quali sono sopravvissuti, ma che possiedono un considerevole valore storico, ad oggi ancora non pienamente riconosciuto.
The motion pictures of the Red Cross Bureau of Pictures, for example, are of considerable historic and entertainment value. (…) Its history is of interest for several reasons. First, it shows how an established organization developed an internal film unit. Secondly, descriptions of their war footage indicate that these films provided a unique coverage of World War I as well as the Russian Revolution and American intervention in that country. Thirdly, the Bureau created an imaginative strategy for Red Cross post-war propaganda (Veeder, 1990, p. 47)
Come specifica Veeder, questa categoria di filmati non-fiction (ma che non rientrano nel catalogo dei cinegiornali o dei documentari di guerra) sono di estremo interesse storico. In primis, sono dei documenti che ci permettono di comprendere il ruolo strategico che il mezzo filmico ha avuto negli Stati Uniti, sia durante che dopo il conflitto, nel costruire un orgoglio nazionale, attraverso l’esaltazione della solidarietà nei confronti degli Alleati: ciò ha permesso di anestetizzare il senso di frammentazione e spaesamento causato dalla Grande Guerra, enfatizzando il ruolo dei connazionali nel trovare delle soluzioni pratiche alle difficoltà quotidiane causate dal conflitto. In secondo luogo, questi film rientrano in una sfera dell’intrattenimento audio-visivo di massa improntato alla pubblicizzazione e promozione velata di una retorica che vuole indirizzare il “pensar comune”, non molto distante dagli spot pubblicitari odierni: in un certo senso, questi cortometraggi rimarcano il ruolo chiave di comunicazione (anche strategica) che il mezzo cinematografico può assumere in un contesto culturale moderno. Infine, la produzione “in-house” di film promossa dalla Croce Rossa Americana, primariamente per scopi promozionali, è di notevole interesse, se consideriamo il suo status semi-governativo e la sua breve durata nel mercato cinematografico dell’epoca:
What makes the example of the in-house production of films by the American Red Cross all the more notable (…) is the agency’s late entrance and sudden exit from film production, at the same time as production, distribution, and exhibition outlets for educational and instructional film in North America entered a period of relative stability and modest profitability (Horne, 2016, pp. 11-12).
Nel luglio del 1918, viene messo a capo della direzione del Bureau of Pictures William Waddell, il quale decide di ampliare e velocizzare la produzione e distribuzione di questi film promozionali: a tal proposito firma un contratto con la General Film Company, grazie alla quale estende il potenziale di fruizione dei cortometraggi realizzati dal Dipartimento, immettendoli in un circuito distributivo double-faced, ovvero destinato sia ad una proiezione “teatrale” (anche la Pathè, così come tanti altri studi, sfruttano queste riprese per i newsreel settimanali), sia ad un esercizio “mirato” nelle sedi locali di enti sociali. Quando la compagnia fallisce, il direttore è costretto a sottoscrivere un accordo con la Educational Film Corporation (nel giugno del 1919) e, successivamente, con la Society of Visual Education.
I primi cortometraggi (non duravano più di dieci minuti) erano realizzati da un’unità di ripresa della Croce Rossa Americana stanziata a Parigi, parte del Dipartimento di Pubblicità diretto da Major Charles Morris (Eagan, 2011). Il filmato in questione, testimoniante il lavoro della scultrice Anna Coleman Ladd, viene realizzato, probabilmente, da questo ufficio nel 1918 e distribuito successivamente negli Stati Uniti dalla General Film Company. Un poster cinematografico (Fig. 1), realizzato dalla Acme Litho. Co., ci permette di categorizzare ulteriormente questo documento filmico, inserendolo all’interno della produzione “d’oltreoceano” (overseas films) e indicandolo come tassello di una lunga serie cinematografica della Croce Rossa Americana indirizzata a mostrare l’aiuto dato ai veterani di guerra1.
These shorts had to balance a pessimistic present with an optimistic future. They had to show both a need and a solution- a reason to give money and proof that the money would help. And they had to do it in ten minute or less. (Daniel Eagan, 2011)
L’ American Red Cross Bureau of Picture viene chiuso nel 1921. Nel 1922 viene stilato, per la Society of Visual Education, un inventario dei film prodotti in questi anni e, alcuni di questi continuano ad essere distribuiti sul territorio nazionale; le restanti copie (e negativi) sono inizialmente conservate presso gli “archivi” governativi, prima di essere trasferite nella sede della Croce Rossa Nazionale a Washington DC. Secondo Eagan, nel 1941 G. Stewart Brown, capo del Public Information Service cerca di donare tale collezione all’Archivio Nazionale, il quale declina l’offerta, avendo poco spazio a disposizione per la conservazione di essa. A seguito di ciò, molti filmati vengono abbandonati o bruciati, decretando la fine della loro esistenza; sono pochi quelli sopravvissuti a questo catastrofico disinteresse conservativo: tra questi troviamo il filmin oggetto, ora conservato al National Museum of Health and Medicine, in Maryland. Dall’inventario del museo risultano essere conservate due copie: quella originale (non viene specificato se siano in possesso del negativo originale) e un duplicato realizzato su Beta videotape.
La storia della conservazione di tali materiali è molto complicata, essendo stati “vittime” di un oblio critico dovuto, principalmente, alla loro natura di film promozionali, strategicamente realizzati con esigenze comunicative per assecondare un programma di “marketing” mirato. In realtà, questi documentari pubblicitari, oltre a possedere un indubbio valore storico, possono risultare di notevole interesse cinematografico: sfidando i limiti di ciò che poteva essere mostrato sullo schermo, propongono delle immagini di guerra, morte e mutilazioni inedite, che non trovano paragoni nei film finzionali di intrattenimento dell’epoca; oltretutto, mettono a nudo delle problematiche sociali di cui gli osservatori sono consapevoli, offrendone allo stesso tempo una soluzione pratica, un “happy-ending” che trova riscontro nella quotidianità e che va, a tutti gli effetti, ad integrarsi con la vita di tutti i giorni.
1 Questo poster cinematografico, conservato nella “Poster collection” della “Hoover Institution Library and Archives”, è un documento alquanto eloquente; è sicuramente uno dei tanti poster realizzati per la pubblicizzazione dei cortometraggi realizzati dall’ American Red Cross e, più specificatamente, per il filmato preso in considerazione da questa analisi. Il fatto che sia stato prodotto dall’ American Red Cross Bureau of Picture e distribuito dalla General Film Company, rafforza l’ipotesi che il filmato sia attribuibile alle produzioni del 1918. Unico dettaglio discordante è il titolo, in questo caso “New faces for old”, differente da quello d’archivio; molto probabilmente, la scelta della compagnia pubblicitaria di optare per un’intestazione più breve ed incisiva, è dovuta ad una strategia di comunicazione mirata: con questa breve frase riescono ad enfatizzare la necessità, insita nei desideri di una popolazione (negli ultimi anni di guerra), di sostituire il passato con un futuro più promettente, nuovo, ancora colmo di possibilità. Analizzando anche gli altri pochi titoli conservati fino al giorno d’oggi, possiamo notare come siano tutti molto brevi ed incisivi, insistendo su delle parole chiave eloquenti: ad esempio, Heroes All (1919) o Helping our Boys at Home (1919)[https://digitalcollections.hoover.org/objects/37365#]
American Red Cross work on mutilès at Paris, 1918. Rebuilding an identity through a mask
L’entrata in guerra degli Stati Uniti comporta un’ampia mobilitazione nazionale (quasi un terzo della popolazione) e l’American Red Cross primeggia nell’offrire servizi medici (e non) alle vittime di guerra delle Allied Forces. Nel 1917 Grace Harper, ispirata dal lavoro dello scultore inglese Francis Derwent Wood (Fig. 3), il quale realizza maschere per soldati con irreparabili mutilazioni facciali (pubblicizzato tramite un articolo in The Lancet), fonda a Parigi il “Bureau for the Reeducation of the Mutilated”. Anna Coleman Ladd, incoraggiata dal critico d’arte Charles Lewis Hind, apre il suo studio parigino alla fine del 1917, amministrato dall’American Red Cross: replicando il “metodo Wood”, l’artista realizza protesi facciali in grado di mascherare le cicatrici mutilanti del conflitto, nel tentativo di restituire un senso di normalità alla vita dei gueules cassées.
Gli effetti delle nuove tecnologie belliche richiedono, dunque, un grande sforzo sul piano medico: la necessità di curare le ferite da granata, visibili nei volti dei soldati, consente di ampliare la ricerca scientifica nell’ambito della chirurgia plastica, inaugurata da Hippolyte Morestin e Harold Delf Gillies. Nonostante la sistematizzazione di un metodo per operare ferite aperte, spesso le forze militari, per completare il percorso di riabilitazione dei reduci di guerra, ricorrevano all’aiuto di scultori, i quali mettevano a disposizione le loro abilità artistiche per la realizzazione di maschere facciali prostetiche. Arte e medicina collaborano per far fronte ad un paesaggio sociale frammentato, sia fisico (le Broken Faces) che psichico (i Shell-shocked), instaurando un rapporto di reciproca dipendenza. Lo scopo delle “tin masks” era quello di evocare realismo e familiarità (Feo, 2007, p. 22): per la progettazione di esse, gli scultori attingevano dal grande silo del sapere anatomico medico, personalizzando poi la forma tramite fotografie antecedenti la guerra, in modo da poter ricostruire l’identità fisica del soldato e renderlo, dunque, nuovamente identificabile all’interno del contesto familiare e sociale; contemporaneamente, i limiti della scienza medica chirurgica consentono unicamente interventi di trapianto di ossa e pelle e difficilmente di ricostruzione delle zone mutilate: di conseguenza, nel caso di gravi menomazioni, ci si affidava alle protesi facciali e all’abilità di artisti volontari, come la Ladd e Wood.
“For those whose faces were mutilated on the battlefields of the Great War, ‘passing’ as normal was not an option” (Biernoff, 2017, p. 15). I passanti vedono nei visi sfregiati dei veterani l’ombra di un conflitto che ha sconvolto le loro vite e che vogliono rimuovere dalla memoria collettiva; le maschere facciali assumono un ruolo chiave nel processo di riabilitazione sociale del soldato, divenendo una vera e propria soluzione ad una problematica molto sentita, quella del ritorno alla convivenza familiare e comunitaria. Lo sforzo nel restituire un velo di “normalità” ai corpi dei veterani pesa notevolmente nell’economia dei programmi di riabilitazione, in particolare in quelli della nazione francese e americana: in questo modo potevano velocizzare il loro rientro in determinati contesti sociali e lavorativi, restaurando un senso di ordine e stabilità che era stato squarciato dalla Materialschlacht.
La Prima guerra mondiale lascia in eredità non solo ‘fragmented faces’, ma anche ‘fragmented souls’ (Shaheen, 2019, p. 641). La perdita di un arto o di una porzione del viso ha un forte impatto anche sul paesaggio psichico dei soldati: le maschere assumono, sotto questa prospettiva (argomentata da Aaron Shaheen), una dimensione spirituale; «giving the prothesis a soul» (Shaheen, 2019, p. 640), in modo tale da permettere agli amputati di integrare questo “nemico di rame” nella loro identità fisica, conferendogli un valore emotivo, oltre che funzionale.
La filosofia artistica di Anna Coleman Ladd enfatizza l’importanza della sintesi ed integrazione di una parte in relazione al tutto, sia sul piano spaziale che temporale; è importante ricordare che la scultrice ha un background artistico “classico”, dunque rivolto ad un’estetica realistica: la verosimiglianza della protesi diviene, dunque, l’aspetto cruciale, se non il fine ultimo, del suo lavoro, divergendo dalla rappresentazione coeva dell’uomo come automa disumano nascosto da una corazza metallica (l’“uomo macchina”). L’identità può essere ricostituita, pertanto, solo attraverso l’integrità del corpo e dello spirito: le maschere realizzate dalla Ladd (Fig. 4) intendono non solo “riempire” una minorazione facciale e un time gap, quello interbellico, che ha divorziato il soldato dalla sua vita precedente, ma anche le lacune dell’animo traumatizzato di essi. La tendenza della protesi a retrodatare, sia fisicamente che spiritualmente, ad uno status quo ante bellum, congelando i volti dei soldati in uno spazio temporale astratto e immobile, interferisce con la sua dimensione di breve longevità e atemporalità: le maschere, se indossate quotidianamente, si sarebbero deteriorate dopo qualche anno; oltretutto, sarebbero parse ironicamente “vecchie” e painfully anachronistic rispetto alla naturale senescenza biologica e caratteriale del soldato.
Questi oggetti interferiscono, dunque, con il modello di progressività del divenire (lineare e crono-logica) della scienza storica positivista (Didi-Huberman): il presunto falsario temporale innescato dalle protesi facciali, oltre a risultare in un autentico rovesciamento della percezione eucronica della storia, può essere interpretato come paradigma iniziale di quell’interrogazione epistemologica che nei decenni successivi, per voce di studiosi quali Aby Warbourg, Walter Benjamin, Carl Einstein, demolirà le fondamenta della conoscenza storica Settecentesca. Come scrive Georges Didi-Huberman in uno dei suoi testi più conosciuti, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, questi tre autori fanno epoca: sono “chiaramente debitori di grandi opere filosofiche fiorite alla fine degli anni Venti, come Sein und Zeit di Heidegger”, ma sono anche autori di scritti che anticipano l’orizzonte euristico della loro ricerca, focalizzata nello smontare definitivamente la dottrina positivista sul tempo storico.
I fatti (die Fakten) del passato non sono più cose inerti che occorre andare a cercare, isolare e quindi includere in un racconto causale, cosa che Benjamin considera un mito epistemologico. Essi divengono oggetti dialettici, in movimento: qualcosa che dal passato ci è accaduto come un compito del ricordo (die Sache der Erinnerung). Il positivismo presentava i fatti storici nel quadro di un passato-ricettacolo astratto, omogeneo, e, per dirla tutta, eterno: un tempo senza movimento. (Didi-Huberman, 2007, p. 99)
Il modello storico che ci viene proposto da Benjamin è straordinariamente dinamico e confuta qualsiasi possibilità di isolamento oggettivo del fatto storico: integrando lo schema anacronistico, introduce il concetto di passato come fatto di memoria, ovvero come silo di eventi (psichici e materiali) che vengono continuamente richiamati e costruiti nel sapere presente. Questo riaffiorare del tempo è reso possibile dallo stesso principio dinamico della memoria, quello dell’inconscio del tempo, di difficile interpretazione, che si presenta a noi attraverso le sue tracce ed il suo lavoro; tutto ciò richiede un grande sforzo allo storico, il quale deve saper rinunciare alle comode gerarchie del passato per applicare un modello di ricerca archeologica dei fatti, sia materiale, -«le tracce sono materiali: vestigia, rifiuti della storia, contro-motivi o contro-ritmi, cadute o irruzioni, sintomi o malesseri, sincopi o anacronismi nella continuità dei fatti del passato»-, che psichica, dal momento che «il lavoro della memoria si accorda innanzi tutto con il ritmo dei sogni, dei sintomi o delle ossessioni, con il ritmo delle rimozioni e dei ritorni del rimosso, delle latenze e delle crisi» (Didi-Huberman, 2007, p. 100).
Le maschere realizzate dalla Ladd diventano, sotto questa prospettiva, delle tracce della Storia, di cui rimane, però, solo l’impronta (essendo deteriorate nella loro materialità fisica) e si inseriscono perfettamente in quella costellazione anacronistica e pancronica di masking faces e facial masking. L’atto di riprendere tale pratica (il cui risultato è il film materia di questo studio) diviene, dunque, a sua volta, un oggetto dell’Erinnerungs-geschichte, degno di un “archivio della memoria storica”. Mettendo momentaneamente in disparte il film-oggetto e soffermandoci unicamente sull’act of recording, quest’ultimo può essere intravisto come ausilio del lavoro della memoria, essendo in grado di catturare queste immagini e renderle effettivamente accessibili, ma interferisce però con un altro principio della dialettica benjaminiana, quella dell’inconscio: la sopravvivenza di un fatto storico viaggia su un binario subcosciente ed il compito dello storico è proprio quello di riuscire a cogliere e svelare questo paradosso cronologico; il mezzo filmico tende, contrariamente, a immortalare le immagini su un piano “meta-cosciente”, rischiando di invadere prepotentemente le leggi del montaggio storico fin qui delineate, portando in superficie il “fantasma” del tempo.
Nel 1932-33 Benjamin propone la sua teoria sulla somiglianza, l’immagine diviene di nuovo il crocevia di sopravvivenze che Warbourg aveva studiato in modo specifico: sopravvivenze del gesto mimico, sopravvivenze delle affinità magiche e di quel mimetismo del tempo rappresentato in modo esemplare dalle credenze astrologiche. (Didi-Huberman, 2007, p. 90)
Grazie a questa prospettiva storiografica, è possibile ritrovare nelle dinamiche di un “oggi” contaminato da una pandemia, che costringe l’individuo ad indossare una mascherina di protezione nei luoghi fisici di interazione sociale, la trama invisibile del passato, quel “già-stato”, fotografato dal filmato American Red Cross Work on a Mutilès at Paris, 1918, che riaffiora non casualmente sulla partitura ritmica (anacronistica) della Storia.
Le cose che hanno fatto il loro tempo non appartengono semplicemente a un passato concluso, svanito: poiché esse sono divenute inesauribili ricettacoli della rammemorazione, sono divenute materia di sopravvivenze- l’efficace materia del tempo passato (Didi-Huberman, 2007, p.104).
La “ricetta” fenomenologica che ha portato Anna Coleman Ladd, nel primo dopoguerra, a mettere al servizio della scienza medica le sue doti artistiche, in modo da poter facilitare e rendere meno “traumatico” il rientro in società dei soldati, realizzando un prodotto estetico (e non industriale1) in grado di rispondere ad un’esigenza quotidiana, è tutt’altro che distante dalle intenzioni di Danielle Baskin, artista e product-designer americana, il cui nome è divenuto popolare proprio durante la pandemia del COVID-19. La sua proposta di immettere sul mercato una “face ID mask”, ovvero una mascherina in grado di sopperire all’ammutinamento monocromatico delle mascherine chirurgiche, imitando graficamente la zona del volto coperta, risponde a delle esigenze non solo di interazione sociale (funzionando come effettivo filtro per le vie aeree), ma anche di riconoscimento biometrico. L’idea di tale prodotto, come riferisce la stessa artista in un’intervista, nasce da un quesito apparentemente banale: come poter sbloccare il proprio telefonino attraverso il Face ID, dal momento che il sistema di riconoscimento facciale del device richiede un’immagine integrale del volto. Identità ed integrità sono, dunque, due fattori strettamente connessi tra loro, difficilmente separabili; l’occhio biologico e l’occhio biometrico, sembrano, inoltre, elaborare i dati per l’individuazione e l’autenticazione allo stesso modo, ovvero utilizzando i parametri di tridimensionalità e totalità. È su queste basi che si fonda il concept del prodotto della Baskin, una mascherina personalizzata in grado di replicare la zona del volto “mutilata” dagli effetti del coronavirus, restituendo all’individuo un’integrità fisica (anche se fittizia) che gli consente di essere riconosciuto ed autenticato dal personal device. Il rapporto di causa-effetto instauratosi tra la catastrofe (in questo caso sanitaria) e la seguente politica di “ricostruzione” (in questo caso identitaria) segue delle logiche inconsciamente analoghe a quelle che hanno definito il lavoro della Ladd e la teoria benjaminiana sul montaggio anacronistico del tempo ci permette, dunque, di giustificare e comprendere meglio l’evidente legame dialettico tra le due artiste ed i loro prodotti.
1 “Mary Guyatt’s research on artificial limbs for British veterans draws attention to the link between the standardization and marketing of artificial limbs in the period immediately after the first World War. A discussion of facial replacement cannot, however, rely entirely on the histories of prosthetic limbs because the nature of loss is not the same.” (Feo, 2007, p. 18)
American Red Cross work on mutilès at Paris, 1918. Rebuilding an identity through a mask
American Red Cross Work on Mutilès at Paris, 1918 è attualmente conservato al National Museum of Health and Medicine e fa parte della collezione audio-visiva dell’archivio; è un filmato di cui si ha scarsa documentazione, ma su cui, negli ultimi anni, è progressivamente cresciuto un interesse storico-culturale. La versione presa in considerazione per il presente lavoro è, ad oggi, l’unica conosciuta da chi scrive o, perlomeno, l’unica a cui si può avere accesso “da remoto”. Difatti, oltre ai due documenti conservati nell’archivio, uno su pellicola e uno su Betamax (supporto analogico amatoriale), esiste una copia digitale, resa fruibile dallo Smithsonian Institute, a seguito di un lavoro di ricerca confluito in un articolo di Caroline Alexander pubblicato dallo Smithsonian Magazine nel 2007.
Il procedimento di digitalizzazione a cui è stato sottoposto questo filmato è tutt’alto che straordinario: i media audiovisivi stanno vivendo una “fase di transizione graduale in cui l’elemento analogico e fotochimico è gradualmente rimpiazzato dal dispositivo digitale”, determinando “un’influenza radicale sulla pratica di produzione e distribuzione […], ma anche sulle modalità di archiviazione, conservazione e recupero del film” (Catanese, 2013, p. 61). Negli ultimi anni, e in particolare negli ultimi mesi (ne è causa il lock-down che ha costretto la popolazione mondiale all’interno delle mura domestiche), il “consumo digitale” del patrimonio cinematografico è aumentato notevolmente, favorendo in primis gli studiosi e gli studenti.
La tecnologia digitale sta ampiamente ri-modellando non solo le modalità di ripresa e montaggio dei film, ma anche quelle di fruizione, grazie all’utilizzo di reti distributive on-line (e non fisiche); l’’innegabile facilità di condivisione e accesso digitale (“con un solo clic”) dei materiali audio-visivi può avere (ma sta già accadendo) un grande impatto a livello preservativo: innanzitutto, da un punto di vista archivistico:
Anche la pratica dell’archivistica di conseguenza sta cambiando rapidamente, pertanto si trasformano le modalità contemporanee di preservazione del patrimonio filmico. Nuove forme di archivi digitali si stanno sviluppando anche attraverso la rete internet, intervenendo grazie alla creazione di media partecipativi usergenerated e forme d’accesso collettivo più aperte e di quanto gli archivi tradizionalmente non siano mai stati in grado di offrire (Catanese, 2013, p. 62).
Il World Wide Web offre uno “spazio d’archiviazione” pressoché infinito, in grado di accogliere e tutelare, senza discriminazioni, la quasi totalità del patrimonio; le politiche di selezione e acquisizione che si basano sul principio di “gusto”, e che in passato sono state causa dell’oblio di quella parte del patrimonio culturale che non rispondeva ai canoni estetici contemporanei, decadono difronte alle infinite possibilità del mondo digitale.
In secondo luogo, viene notevolmente facilitato il processo di scavo, nel senso di ricerca, e di rinvenimento (anche casuale) di materiali cinematografici; non è più necessaria la fisicità del luogo o del soggetto e neppure quella dell’oggetto, poiché tutto avviene su un piano virtuale: le nuove tecnologie hanno determinato, dunque, un notevole impatto non solo sull’esperienza artistica diretta, ma anche su quella indiretta di fruizione, studio e salvaguardia. In un certo senso, il cortometraggio realizzato dalla Croce Rossa Americana, non sarebbe mai divenuto oggetto di questo studio, se non fosse stato pubblicato su una piattaforma mediale di facile accesso “casalingo” come Youtube. Sorge spontaneo chiedersi se in un’epoca di iper-digitalizzazione e interconnessione come quella del XXI secolo, la soluzione di un “repository” cinematografico possa effettivamente essere la soluzione più adatta per la preservazione e trasmissione del patrimonio audio-visivo. Ciò comporterebbe sicuramente un grandissimo sforzo preliminare di stabilizzazione fotochimica e restauro fisico e digitale delle pellicole, in modo da poterne conservare una versione quanto più pulita.
La prassi del restauro cinematografico si trova ancora in una condizione ibrida, dovuta anche alla mancanza di una disciplina definita che determini un codice etico o modalità esecutive (Catanese, 2013, p. 44); la FIAF ha però elaborato nel 1998 un Codice etico delle attività di conservazione e preservazione dei documenti filmati, accettato e firmato da tutti gli archivi aderenti e che costituisce il quadro di riferimento (…). Il restauro è finalizzato ai seguenti obiettivi:
ricostruzione dell’opera audiovisiva nelle condizioni e con le caratteristiche (sia testuali che materiali) il più vicino possibile all’originale;
conservazione dell’opera nelle migliori condizioni possibili;
divulgazione dell’opera a fini di studio
sfruttamento commerciale dell’opera da parte degli aventi diritto
(Catanese, 2013, pp. 44-45).
Nel caso di American Red Cross Work on a Mutilès at Paris, 1918, lo stato del supporto è visibilmente danneggiato, tanto da rendere di difficile lettura le prime sequenze del filmato: macchie, rigature, decolorazioni sono segno di una scarsa attenzione conservativa (non necessariamente imputabile agli archivisti del museo dove è attualmente conservato); la necessità di un restauro è evidente, soprattutto se prendiamo in considerazione il fatto che questo cortometraggio è uno dei pochi sopravvissuti tra quelli realizzati dall’ American Red Cross durante la sua breve stagione di produzione cinematografica. Essendo già stato digitalizzato (una copia digitale è conservata presso la University of Illinois), l’approccio preservativo più adeguato è sicuramente quello del restauro digitale, le cui tecnologie sarebbero in grado di simulare, in modo più fedele, l’aspetto originale del film, restituendone una qualità fotografica da cui poterne ricavare dei dettagli originali.
Per quanto riguarda la fase di divulgazione dell’opera, in modo da poterne garantire una visibilità necessaria alla sua successiva sopravvivenza, il filmato ha delle grandi potenzialità educative; se diffuso correttamente, può divenire, assieme a molti altri documenti audiovisivi “secondari” che godono di poca notorietà, un ottimo mezzo supplementare agli studi non solo di natura cinematografica (in quanto rari esempi di filmati nonfiction della prima stagione del cinema), ma anche di natura storica:
Vi sono numerose prospettive che hanno considerato lo stesso medium cinematografico come un archivio. Secondo Mary Anne Doane il cinema emerge dal bisogno archivistico del diciannovesimo secolo; ecco che il cinematografo nasce direttamene dalla pulsione memoriale ottocentesca, il desiderio tardoromantico di ricordare (Catanese, 2013, p. 24).
Il nostro compito è, dunque, quello di conservare questa memoria, indipendentemente dalle inflessioni estetiche ed artistiche dettate dal “gusto dell’epoca”; dobbiamo farci, come dice Benjamin, “straccivendoli”, (Lumpensammeler) della memoria delle cose, dei “collezionisti degli stracci del mondo”, ovvero di tutti quegli oggetti nei quali è stata «fissata l’immagine della storia nelle cristallizzazioni meno appariscenti dell’esistenza» (Didi-Huberman, 2007, p.102).
Bibliografia
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CATANESE, R. (2013), Lacune binarie. Il restauro dei film e le tecnologie digitali, Bulzoni editore, Roma
DIDI-HUBERMAN, G. (2007), Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino
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