Fenomenologia di un archivio di famiglia.
Dalla diapositiva alla digitalizzazione
Braun 5025AF-S
NOME FONDO | Collezione privata Fabbro |
PROPRIETARIO | Fabbro D./Fabbro I. |
IDENTIFICATIVO | 00000001 |
LOCALIZZAZIONE | Italia |
TIPOLOGIA DEL SITO | Casa |
SPECIFICHE | Taverna |
COORDINATE | 45°55'6465" N, 12°51'21334" E |
DATA DI REPERIMENTO | 1/11/2019 |
AUTORE DELLO SCAVO | Fabbro I. |
DEFINIZIONE | Proiettore diapositive |
TIPOLOGIA | a caricatore lineare |
CATEGORIA | Ottica |
ANNO | 1979 |
MARCA | Braun |
MODELLO | 5025AF-S |
N. SERIE | - |
MISURE E PESO | 29 cm (L), 29 cm (P), 11 (H) / 15 kg |
La collezione
Tra le numerose diapositive realizzata da mio padre nel corso degli anni Ottanta e Novanta, si propone qui parte delle fotografie scattate durante un viaggio in Kenya nel 1993, dove fu ospite di una missione situata poco fuori dalla capitale Nairobi e con base in una sede scout Agesci. Ha sempre raccontato di quanto emozionante sia stata l'esperienza che gli ha permesso di vivere il cuore dell’Africa, catturando momenti di vita quotidiana con la sua Canon F-1.
Fenomenologia di un archivio di famiglia. Dalla diapositiva alla digitalizzazione
di Irene Fabbro
Come oggetto del mio lavoro di archiviazione ho scelto alcune delle numerose diapositive fotografiche che mio padre ha scattato nel corso degli anni Ottanta e Novanta, e in particolar modo quelle di un viaggio in Kenya, fatto nel 1993, in quanto lo ha particolarmente e positivamente segnato. Qui fu ospite di una missione, situata poco fuori dalla capitale Nairobi e con base in una sede scout Agesci: a capo di questa missione c’era un prete con cui mio padre aveva un forte legame d’amicizia grazie al gruppo scout locale di cui facevano entrambi parte. Fu proprio lui a invitare mio padre alla missione con un altro suo compagno scout.
Ha sempre raccontato di quanto emozionante sia stata questa esperienza per lui perché ha potuto vivere il cuore dell’Africa non come turista, ma come ospite in una missione, grazie a cui è riuscito a stare a contatto con la gente del posto, con le tribù dei Masai e con la realtà scout lì presente, catturando momenti di vita quotidiana con la sua Canon F-1. Ritengo che grazie a queste diapositive, non solo noi familiari, ma anche amici a lui più o meno vicini, abbiano potuto vivere questo viaggio esotico.
Affascinante era il modo in cui le diapositive ci venivano mostrate: le proiezioni di questi supporti erano motivo di ritrovo e convivialità, di condivisione di esperienze, non molto diverso dal trovarsi a guardare un film, ma con una forte connotazione privata. Anche le diapositive scorrono sullo schermo in un ordine personalizzato e scelto dall’autore delle foto a seconda di come vuole raccontare quella determinata storia, e sono accompagnate da un più o meno dettagliato racconto orale. Capitava spesso, quando ero piccola, che ritrovandosi per casualità a ricordare quell’esperienza, papà cominciasse a raccontare del Kenya, e da lì a poco le immagini passavano da mere visioni nella mia testa a vere e proprie fotografie proiettate, che mi davano conferma dell’esistenza di quei posti. Non succedeva in momenti specifici dell’anno, solo così, quando io bambina, affascinata da tali racconti, lo supplicavo di farmi vedere quelle esperienze. Mi affascinava molto veder spegnersi la luce del soggiorno e accendersi quella del proiettore di diapositive, che sul muro mi mostravano posti lontani, mai visti. Tuttavia, allora l’apparecchio di proiezione non era lo stesso che ho utilizzato adesso per rivederle, in quanto quel vecchio proiettore è andato rotto. Quello che uso adesso - un Braun di fine anni Settanta - è stato recentemene donato a mio padre da un suo amico.
Grazie a “Cronache del dopobomba” ho avuto l’opportunità di riscoprire la materialità di queste foto: infatti, qualche anno fa, con mio padre ho digitalizzato tutte le oltre tremila diapositive dell’archivio di famiglia. Questa digitalizzazione è avvenuta tutta in casa, arrangiandoci con ciò che avevamo a disposizione. Papà ha costruito uno strumento per fotografare le diapositive usando il meccanismo del proiettore per passare da una diapositiva all’altra (con l’aiuto di un telecomando), e ha posto uno degli obbiettivi della sua fotocamera Canon digitale per “scansionare” ciascuna diapositiva, poi catturata nell’hard disk del PC. Il risultato di questo lavoro è stato l’ampliamento dell’archivio digitale di famiglia, che è stato dunque arricchito con le diapositive del viaggio in Kenya catturate in alta definizione e, successivamente, ottimizzate con la giusta taratura dei colori e una pulizia digitale di imperfezioni varie dovute al tempo e presenti sulla pellicola.
Inoltre, ho sempre assistito con interesse alla periodica pulizia e manutenzione di queste pellicole, che venivano meticolosamente estratte dai loro contenitori e pulite con un pennellino dalla polvere in eccesso che inevitabilmente filtrava attraverso le scatole che le contengono.
Era un piacere prenderle in mano, puntarle verso una fonte luminosa e riuscire a indovinare cosa rappresentassero. Ora però, da quando sono state digitalizzate e definitivamente archiviate, nessuno ha più la necessità di proiettarle, in quanto si fa ormai affidamento ai file digitali tratti da queste. Questo progetto quindi è stata proprio l’occasione di riscoprire, dopo anni, la loro materialità, di ripulirle e di approfondire ancora una volta la storia dietro tutte queste immagini.
Fenomenologia di un archivio di famiglia. Dalla diapositiva alla digitalizzazione
Il termine diapositiva racchiude in sé l’idea di un attraversamento (dia): quello della luce. Il termine, spesso confuso con quello di transparency, proprio per la pratica di visione che la contraddistingue, si riferisce a una fotografia positiva, in bianco e nero o a colori. Parte tutt’oggi dell’immaginario collettivo, anche se in disuso, la diapositiva è un’immagine di piccolo formato caratterizzata dall’intelaiatura, bianca o grigia, in plastica o cartone, su cui pratica comune era segnare o il giorno dello scatto o il luogo: dati sensibili per poter identificare l’impressione in tempi più rapidi rispetto alla eventuale proiezione.
Difatti, sia per il piccolo formato sia per l’esigenza di luce o di una parete riflettente, l’oggetto è ben lontano dalle attuali pratiche di visione immediate e istantanee. In particolar modo possiamo identificare due modi per visionare il contenuto: oltre alla proiezione tramite un proiettore, una diapositiva può essere anche osservata, come si accennava, in trasparenza, -o puntandola verso una fonte luminosa, o adoperando strumenti specifici quali un visore, un ingranditore o uno schermo retroilluminato-.
Le diapositive in oggetto, risalenti al periodo di giovinezza del loro autore, mio padre, e ritraenti i viaggi da lui compiuti in quegli anni (tra gli Ottanta e i Novanta), sono state materialmente dimenticate per diverso tempo, finché cinque anni fa, prendemmo la decisione di pulirle e digitalizzarle. Quella è stata l’ultima volta che queste diapositive sono state passate in rassegna, nella completezza della collezione: estratte una ad una dalle proprie scatole (Fig. 1a e 1b) per essere definitivamente rinchiuse nei loro contenitori, senza più avere occasione di visionarle.
Per la pulizia sono stati usati un pennellino di peli di cammello per eliminare la polvere superficiale, assieme a della semplice aria emanata da una pompetta, mentre per una pulizia più approfondita è stato usato dell’alcol isopropilico con un pannetto di cotone. Purtroppo, non si è stati in grado di rimuovere le macchie di muffa che, nel tempo, hanno aggredito la pellicola. Per conservare al meglio quelle che sono diventate le nostre diapositive, ci siamo sempre assicurati che fossero ben stipate nelle loro scatolette, facendo in modo che all’interno circoli poca aria: questo per impedire a microorganismi di insediarvisi. Ci siamo anche assicurati di mantenerle in un ambiente secco (assolutamente non umido) e ad una temperatura compresa tra i 10 e i 30 gradi, sulla mensola più alta di un prominente mobile.
Per quanto concerne la digitalizzazione, questo processo non è avvenuto servendosi di un comune scanner, ma io e mio padre abbiamo costruito con materiali che già avevamo in casa un particolare strumento per catturare, con un’alta risoluzione, le immagini delle diapositive. Ci siamo serviti di un obiettivo 100mm macro della Canon con una distorsione planare molto ridotta -senza quindi aberrazioni focali nel centro rispetto ai lati- montato su una reflex digitale. È stato poi preso un proiettore per diapositive a caricatore lineare, senza obiettivo e con lampada depotenziata, con due ulteriori vetri satinati per diffondere meglio la retroilluminazione della diapositiva. Davanti a questo è stato costruito un telaio metallico regolabile millimetricamente per allineare l’asse dell’obiettivo macro con quello del fascio luminoso proveniente dalla lampada, in modo che il piano del sensore della macchina fotografica fosse esattamente parallelo a quello della diapositiva.
La scansione è avvenuta simulando una proiezione: disponendo le diapositive nel loro caricatore venivano fatte avanzare una alla volta, per poi provvedere alla messa a fuoco e conseguentemente all’acquisizione dell’immagine con la macchina fotografica. Questa era collegata ad un PC, per cui le immagini venivano acquisite utilizzando il programma di controllo remoto di Canon.
I vantaggi rispetto ad uno scanner sono stati una maggiore risoluzione, data dal sensore della DSRL e, soprattutto, una maggiore luminosità della diapositiva, che permetteva grazie anche alla maggiore latitudine di posa del sensore digitale, di catturare anche le zone più scure e sottoesposte della diapositiva stessa. Un altro vantaggio è stata una maggiore rapidità nella scansione. Gli svantaggi di questo strumento auto-costruito si sono trovati invece nel fatto che, per avere una qualità alta, è stato necessario avere una maggiore perizia nella messa a punto dell’allineamento tra diapositiva e sensore fotografico.
Prima di questo sistema costruito in maniera amatoriale si era tentato di recuperare un apposito piedistallo per riproduzione (come un ingranditore per stampe fotografiche) su cui sarebbe stata montata la macchina fotografica e che avrebbe permesso una maggiore facilità di allineamento; ma non siamo riusciti a trovarne uno. Abbiamo verificato che la risoluzione della scansione in realtà va oltre la grana della pellicola: ingrandendo il file, infatti, è possibile vederla. Questo poiché la risoluzione della diapositiva originale, scattata con una reflex degli anni Ottanta, è inferiore alla risoluzione che dà oggi una reflex digitale. Il vantaggio della digitalizzazione è che in postproduzione risulta possibile correggere la dominante cromatica che, come abbiamo sottolineato precedentemente, è un problema ricorrente nelle diapositive. Tuttavia, uno svantaggio di questo processo di archiviazione è quello sottolineato da Giovanna Fossati, quando, pur riferendosi a pellicole filmiche afferma che «long-term preservation of born-digital and digitized films has to deal regularly with software and hardware that need periodic replacement» (Fossati, 2018, p. 94): infatti sarà necessario riprendere in mano, nel corso degli anni, le digitalizzazioni da noi effettuate.
Fenomenologia di un archivio di famiglia. Dalla diapositiva alla digitalizzazione
La diapositiva veniva adoperata sin dall’inizio del XX secolo in pratiche stereoscopiche: prassi nata a fini di intrattenimento e poi per lo studio scientifico che, con l’ausilio di disegni prima e diapositive fotografiche poi, creava una visione tridimensionale. Per poterle osservare si ricorreva all’uso di uno stereoscopio, appunto, uno strumento ottico simile al binocolo sviluppato già a partire dal 1832. Il suo funzionamento riproduce il principio visivo dell’occhio umano che sfrutta la visione binoculare del sistema visivo umano. Come ciascuno dei due occhi registra l’immagine osservata da due punti di vista differenti, nello stereoscopio, in ciascuna delle due aperture oculari dai cui è composto, venivano posizionati due diapositive quasi identiche, su supporto di carta o di vetro: guardando queste immagini dalla giusta distanza esse restituiscono un senso di tridimensionalità al soggetto rappresentato (Piazza, 2014, p. 101). Sebbene la dispositiva sia stata usata sin dal primo decennio del Novecento come supporto narrativo, dalla Homeos prima e dalle Leica poi, a commercializzare il sistema fu la casa statunitense Tru-Vue che cominciò nel 1931 a introdurre le prime filmstrips. Queste erano una serie di coppie di immagini stereoscopiche monocromatiche su strisce di pellicola invertibile. Il sistema seguì una sua evoluzione: dai successivi View-Master negli anni Quaranta sino ai sistemi Stereo Realist degli anni Sessanta.
Parallelamente alla stereoscopia, la diapositiva ebbe ampia diffusione quale pratica privata. Ottenne successo a partire dal secondo dopoguerra grazie alla produzione di pellicole invertibili da parte di marchi come l’americana Kodak e la giapponese Fujifilm: in particolare della prima possiamo ricordare le pellicole a colori Kodachrome ed Ektachrome, prodotte rispettivamente fino al 2009 e al 2012. Le Kodachrome erano le pellicole più costose ma anche più precise, conosciute per la resa di colori più sgargianti, utilizzate solo in determinati contesti di luce in quanto permettevano un’esposizione massima di 50 ASA1. Inoltre, non vi erano studi fotografici che sviluppassero le Kodachrome in Italia, ma era possibile mandarle a sviluppare soltanto in Svizzera.
Questi motivi portavano molti fotoamatori a prediligere, tra gli anni Settanta e Novanta, le pellicole Ektachrome, in acetato, in quanto più economiche e sviluppabili in un qualsiasi studio fotografico o in casa. Potevano essere acquistate in rullino o in bobina. I rullini erano direttamente caricabili all’interno della macchina fotografica, mentre le bobine prevedevano la costruzione casalinga di un rullino utilizzando la pellicola acquistata separatamente. L’Ektachrome era, dunque, il compromesso qualità/prezzo più conveniente tra le pellicole invertibili a colori in commercio. Sono queste le diapositive scelte per gli scatti oggetto della presente ricerca: la testimonianza del fotoamatore conferma si tratti di una pellicola Kodak Ektachrome 100. È stata scelta una pellicola a colori in quanto capace di trasmettere più emozioni e di restituire in modo più veritiero la percezione del fotografo.
Erano due i metodi di colorazione delle pellicole invertibili a colori: a sintesi sottrattiva e a sintesi additiva. In particolare, la pellicola Kodachrome prevedeva il processo di sintesi sottrattiva, che consisteva nella colorazione della pellicola in fase di sviluppo: dunque, il colore non era già presente nell’emulsione. Questo era un trattamento molto complesso che per molti laboratori fotografici non era possibile effettuare, a causa della mancanza delle attrezzature necessarie.
Fin dalla loro diffusione più ampia, alla portata di tutti dagli anni Cinquanta in poi, le diapositive sono state i supporti fotografici più “comodi”, in quanto potevano essere sia visionati sul loro supporto originale, sia stampate (quindi avendo la possibilità di conservarle in due modi diversi); ma sono anche state motivo di ritrovo tra conoscenti, di socialità e di creatività condivisa, grazie alle proiezioni di cui potevano -e tutt’ora possono, qualora si conservino integre- diventare protagoniste, riportando alla luce i ricordi in un’ambientazione buia e ricca di atmosfera, assimilabile alla pratica cinematografica, suscitando emozioni che le foto stampate rendono in maniera diversa, forse, meno immersiva e più distaccata.
Se per un rullino negativo il passo successivo allo sviluppo, definitivo e obbligato, è la stampa delle fotografie, per un rullino invertibile l’opzione più comune di fruizione delle immagini scattate è la proiezione, per la quale sono necessari un qualsiasi muro bianco -o uno schermo- e un fascio di luce luminosa che attraversi le diapositive. Il mezzo più comune, essenziale per “dare vita” alle diapositive, è il proiettore: vide la sua massima diffusione a partire dagli anni Cinquanta fino agli anni Novanta, periodo in cui le diapositive conobbero il loro successo commerciale.
È composto da quattro parti fondamentali: una lampada ad incandescenza, un condensatore per convogliare la luce sulla diapositiva, un contenitore per le diapositive e un obiettivo di proiezione. Nei proiettori più moderni, dagli anni Ottanta in poi, era possibile trovare anche un sistema di autofocus, in grado di mettere a fuoco automaticamente le immagini a ogni cambio di diapositiva.
Si ricordano le principali tipologie di proiettore: quello a carosello, a doppio caricatore (questo consentiva la dissolvenza incrociata, possibile anche attraverso l’uso di due proiettori a caricatore lineare), il proiettore manuale per diapositive singole e quello a caricatore lineare. Vorrei soffermarmi su quest’ultimo, in quanto usato nella visione delle diapositive in possesso. Il primo passo da compiere è la preparazione del proiettore collocato a una certa distanza dalla parete scelta: più lontano sarà collocato il proiettore, più grande risulterà l’immagine proiettata. Secondo passaggio è il caricamento, nell’apposita banda, estraibile a scorrimento, delle diapositive. Una meccanica composta da una leva, trasporta la diapositiva dal caricatore all’interno nello spazio tra la lampada e l’obiettivo. La lampada genera un fascio luminoso concentrato che attraversa la diapositiva, e tramite l’obiettivo viene ingrandita e focalizzata proiettandola. La diapositiva viene ruotata di 180° in senso orizzontale e verticale dall’obiettivo che riporta dunque l’immagine al suo corretto stato. La diapositiva viene sostituita con quella successiva attraverso un apposito telecomando, con o senza filo, che aziona il meccanismo di trascinamento riportando la diapositiva precedente alla sua postazione originaria nel contenitore, mentre la leva meccanica trascina la nuova diapositiva nuovamente nello spazio tra la lampada e l’obiettivo. Questo tipo di proiettore era piuttosto impreciso, dal momento che la diapositiva non era ferma all’interno del suo spazio nel caricatore, il che risultava spesso in problemi meccanici per cui la leva si inceppava.
Il caricamento di un apparecchio più o meno meccanico come il proiettore, può considerarsi un rituale. Infatti, il processo di funzionamento permette di raccontare, secondo la cadenza delle diapositive inserite, nuove storie e dar vita a viaggi densi di immaginario sempre differenti.
1 ASA identifica la sensibilità di una pellicola fotografica alla luce: 50 ASA identificano una rapidità lenta.
Fenomenologia di un archivio di famiglia. Dalla diapositiva alla digitalizzazione
Quale miglior modo di valorizzare l’oggetto se non riscoprirlo nella fruizione originaria, potendo godere delle immagini ritratte sullo schermo nell’atto di proiezione.
Si è usato un proiettore per diapositive risalente agli anni Settanta (Fig. 2a e 2b), perfettamente funzionante e, in questo caso, una grande opportunità per rimettere in attività le vecchie diapositive inutilizzate. In particolar modo, in analisi sono state prese delle diapositive di un viaggio in Kenya compiuto nel 1993. Oggetti che raccontano di un passato e tornano a essere parte del presente: usando le parole di Alice Cati, veri e propri «procedimenti di trasformazione sia del tempo quotidiano in tempo della festa, sia dello spazio domestico in sala cinematografica», grazie a «lo schermo, l’allestimento della sala, il buio, il ronzio del proiettore» (Cati, 2009, pp. 200-201), diventando quindi un evento straordinario. Sono immagini che mi sono portata dentro per tutta l’infanzia, sebbene ora non me le ricordassi in modo nitido. Anche per questo motivo ho deciso di “riesumarle”, di farle ritornare chiare nella mia mente, oltre al fatto che sono un ricordo importante per mio padre, che porta quell’esperienza nel cuore, anche perché la visse con un amico che ora non c’è più.
Estraendo una ad una le diapositive della scatola ‘Kenya’, le ho sistemate nel proiettore e le ho visionate tutte quante. Nel mentre ho notato come in quei posti, in quegli anni -forse ancora oggi- si potessero trovare a pochi chilometri di distanza due mondi completamente diversi: da una parte la città, la capitale di Nairobi con il suo traffico e i suoi grattacieli, dall’altra la savana, con le capanne fatte di legno e paglia, abitate dalla tribù dei Masai (Fig. 3a e 3b), persone in completa armonia con la natura (Fig. 4a e 4b). Tanta ricchezza da una parte, tanta povertà dall’altra. Ho anche notato come ci fosse poi un altro mondo tra questi due: quello dei mercati poveri, brulicanti di gente, delle strade asfaltate ma ancora attraversate da carretti trainati da animali, o da furgoncini a dir poco instabili; della tecnologia ancora rudimentale, della pastorizia, e dei bambini che affascinati guardano il motore di un’auto, non avendone mai visto uno. Tutti questi mondi discordanti tra loro, eppure in un raggio di un centinaio di chilometri l’uno dall’altro, mi hanno permesso di ragionare sulla dicotomia della rappresentazione fatta da mio padre. Sull’eco della lettura del saggio di William John Thomas Mitchell, ho iniziato a chiedermi che cosa quelle immagini volessero dire oggi, a quasi trent’anni dalla loro realizzazione.
Ho quindi pensato a un processo di valorizzazione per mettere in valore l’oggetto, in linea con l’idea del teorico di cultura visuale secondo cui «ciò che le immagini vogliono da noi […] è un’idea di visualità appropriata alla loro ontologia» (Mitchell, 2006, p. 158). Nasce così l’idea di un progetto di valorizzazione pensato al rispetto della memoria delle immagini e alla materialità del supporto basato sulla narrazione dell’atto di proiezione.
Ho deciso di selezionare le diapositive che più potessero rappresentare questi aspetti; oltre, naturalmente, a qualche sprazzo di natura africana, unica nel suo genere, coloratissima, dove si possono scorgere ghepardi addomesticati e zebre in libertà. Ho raccolto le diapositive in un caricatore a sé stante, le ho messe in un ordine che rispettasse la mia personale lettura di quelle immagini e le ho poi disposte nel caricatore del proiettore.
Per la proiezione ho scelto un ambiente semplice, quello di casa, che mi ricordava molto le proiezioni della mia infanzia e un’unica fonte di illuminazione, nient’altro che un’abatjour a luce calda, molto in sintonia con i colori dell’Africa, della savana. E così, con la stessa Canon con cui era stata fatta la digitalizzazione, ho filmato la proiezione.
Il montato è accompagnato da un sottofondo musicale: sono alcuni dei brani composti appositamente per una proiezione delle stesse diapositive avvenuta sul finire degli anni Novanta. Nella registrazione, risalente alla data di quell’evento, è un caro amico di mio padre, pianista e organista, a eseguire le musiche. Di mio padre è stato il suggerimento di utilizzare anche per il lavoro di valorizzazione che si propone.
Il montato è disponibile al link.
Mentre le figg. 5-8 rendono conto della messa in esecuzione della proiezione, dall'accensione del proiettore al carrello, dalla luce proiettata sul muro alla diapositiva proiettata.
La riscoperta di queste diapositive nella loro materialità originaria e il loro ri-utilizzo per la realizzazione di questo progetto è stato motivo di curiosità non solo per me, che ho compiuto lo scavo, ma anche per la fonte orale primaria, mio padre, che si è sentito lusingato dalla decisione di rendere protagoniste di un mio lavoro di valorizzazione le sue fotografie.
BIBLIOGRAFIA
Monografie
CATI, A. (2009), Pellicole di ricordi. Film di famiglia e memorie private (1926-1942), Vita e Pensiero Editore, Milano.
FOSSATI, G. (2018), From Grain to Pixel. The Archival Life of Film in Transition, University Amsterdam Press, Amsterdam.
MITCHELL, W. J. T. (2009), Pictorial Turn. Saggi di cultura visual, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Articoli in rivista
PIAZZA, M. (2014), ‘L’oggettività della fotografia e la conoscenza stereoscopica: da Proust a Barthes e ritorno, in Lebenswelt, n. 5, pp. 92-105.
SITOGRAFIA
http://www.treccani.it/vocabolario/diapositiva/
https://it.wikipedia.org/wiki/Pellicola_fotografica
https://it.wikipedia.org/wiki/Stereoscopia
https://andreamariani.info/2018/06/25/appunti-di-ricerca-diapositiva/